[Testo] Episodio 059: Cronache da un Ritiro di Vipassana

Con i glutei intorpiditi e formicolanti, la schiena contratta e dolorante, faccio un altro passo avanti sul sentiero che porta alla consapevolezza e al non giudizio. Un pensiero sorge nella mia mente: “Ancora sei giorni…e non so nemmeno se reggerò per i prossimi sei minuti!”

Questo è il racconto del mio secondo ritiro di Vipassana: dieci giorni in totale silenzio, con l’obiettivo di imparare una pratica meditativa orientata al corpo e alle sue sensazioni. Ne avevo già fatto uno simile quattro anni prima ed era stata un’esperienza sfiancante. Ero tornata a casa pensando che non avrei mai più meditato in vita mia, ma sorprendentemente, due anni dopo quel rifiuto viscerale è svanito e sono stata di nuovo attratta dalla meditazione. Ho iniziato a praticare ogni giorno per conto mio e sono andata avanti per un paio d’anni finché si è ripresentata l’occasione e la voglia di partecipare a un ritiro di Vipassana.

Ero di nuovo senza lavoro e mi chiedevo quanto sarebbe stato diverso un lungo ritiro di meditazione ora che ero abituata a praticare regolarmente. Mi sono iscritta al ritiro di Vipassana con la speranza di soddisfare la mia curiosità e ridare slancio alla mia pratica un po’ fiacca.

Con l’avvicinarsi del primo giorno di ritiro, l’ansia è aumentata. Mi dicevo “che impegno ti sei presa? Non ti ricordi quanto è stato difficile l’altra volta?” La mia parte più miope era parecchio perplessa, mentre quella più lungimirante sapeva che sarei stata contenta della mia scelta, anche se al momento non era facile.

GIORNO 1: IL GIUSTO ATTEGGIAMENTO

All’inizio del ritiro ho deciso che il mio obiettivo questa volta non era di portare a termine il programma come un robot – il mio obiettivo era soprattutto di mantenere un atteggiamento leggero ed evitare la tortura che avevo vissuto la volta precedente. Se avessi avuto bisogno di una pausa, me la sarei presa senza giudicarmi per questo. Se avessi voluto andarmene, me ne sarei andata. Se negli insegnamenti serali ci fosse stato qualcosa con cui non ero d’accordo, l’avrei ignorato e mi sarei concentrata sui contenuti di valore per me.

Fin da subito ho capito l’importanza della mia pratica abituale. Ora ero molto più consapevole del confine che c’è tra superare i miei limiti e migliorare le mie capacità, e ignorarli completamente e uscirne sfiancata. Ogni volta che ho percepito che l’irrequietezza stava aumentando, invece di giudicarmi debole e bacchettarmi, ho scelto di essere gentile con me stessa, di incoraggiarmi come avrebbe fatto un amico: “Ci sta che tu sia irrequieta, non è facile. Con un po’ di pazienza l’irrequietezza passerà, come ogni altro pensiero”. Ho fatto del mio meglio per continuare a meditare nonostante tutto, ma se non ce l’avessi fatta, mi sarei presa una breve pausa o avrei cambiato postura.

Mi conosco e so che tendo a esagerare piuttosto che a moderarmi, quindi è stato importante concedermi delle brevi pause. Sono stata però anche molto ligia al programma. Quando è stato il momento di meditare, il mio impegno è stato sincero. Anche se ero riluttante e la mia mente poco disposta a meditare, non ho mai saltato una sessione di pratica per riposarmi o lavare i panni. Ogni praticante comunque è diverso da tutti gli altri, ed è importante che ciascuno sia consapevole dei propri bisogni. Solo tu puoi sapere se ti stai concedendo una meritata pausa o se ti stai lasciando andare.

GIORNO 2: CAMBIAMENTI OSSERVABILI

Ho iniziato a notare un cambiamento importante nel mio stato mentale. Durante la pausa per il pranzo ero seduta su una roccia ai bordi del laghetto. Semplicemente stavo seduta e osservavo la ricchezza della scena davanti a me. Di solito avrei avuto l’ansia di fare qualcosa, di riempire ogni istante con la sensazione di essere produttiva. Invece provavo pace e un senso di contentezza per il momento presente così com’era. Mi sono rilassata col calore del sole sulla pelle. Mi sono goduta la solidità della roccia che sosteneva il mio corpo. La brezza gentile mi è sembrata come se il vento mi abbracciasse. E mi sono persa in questo universo di api ronzanti, riflessi increspati e nuvole arricciate. Un piccolo batuffolo di lanugine mi è passato davanti maestoso, come un impavido viaggiatore attraverso l’oceano del cielo. La sua presenza mi è sembrata assurda, mi è venuto da sorridere e a fatica ho mantenuto il mio voto di silenzio.

Il mio Sé abituale forse sarebbe rimasto un po’ deluso dal laghetto marrone e dagli alberi spogli tutt’attorno. Ora invece potevo apprezzare l’infinita bellezza che si nasconde dietro ogni scena apparentemente ordinaria. È un’abitudine della nostra mente quella di costruire la realtà e giudicare e categorizzare tutto, abitudine che spazza via i dettagli più veri del momento presente. La noia è una forma di agitazione, un rifiuto della realtà così com’è adesso, il desiderio che uno stimolo esterno possa colmare un vuoto interiore. Una mente capace di non ridurre la realtà a una caricatura, non la troverà mai noiosa.

Ho iniziato a notare un cambiamento nel mio rapporto con il cibo. Anche se non mi piace ammetterlo, spesso tratto il cibo come un rimedio per il mio disagio emotivo. Al lavoro, quando sono scontenta, la pausa pranzo è la mia salvezza. Durante il mio primo ritiro di Vipassana, il cibo mi era stato di conforto e piano piano era diventato sempre più importante fino a occupare una buona parte dei miei pensieri, ben più di quanto avrei voluto.

Questa volta posso vedere il desiderio sorgere e poi svanire, nonostante faccia solo due pasti al giorno, con un té a metà pomeriggio al posto della cena. Posso sentire la fame senza esserne schiava. Posso vedere che la sensazione di fame va e viene a prescindere dal fatto che abbia mangiato o meno. Preoccupata com’ero di patire la fame, per i primi due giorni ho preso porzioni abbondanti. Ma noto la sensazione di pienezza del mio stomaco e automaticamente perdo interesse nel cibo. I miei nodi mentali non mi ipnotizzano con il loro messaggio che dice che “il cibo è buono e dovrei continuare a mangiarne”. Il mio essere è in sintonia con la vita e lascio il cibo nel piatto. Spesso vorrei mangiare dei dolci, specialmente quando sono sotto stress, ma qui trattenermi mi risulta più facile; non per via di una voce dentro di me che mi dice che questa è la scelta giusta, ma perché non voglio sentire il sapore dello zucchero raffinato. Durante il ritiro di Vipassana, ho mangiato per nutrire il mio corpo, non per intrattenere la mia mente.

GIORNO 3: PICCOLE LEZIONI DALLUNIVERSO

Mi sveglio e mi preparo per la sessione di meditazione mattutina che va dalle 4:30 alle 6:30. Ho deciso di svolgere queste sessioni nella mia stanza invece di andare nella sala di meditazione. Mi piace l’idea di poter stare un po’ sdraiata, oppure di cambiare postura, senza essere osservata, e inoltre sono un po’ riluttante ad affrontare il freddo del primo mattino. Stamattina però prima di sedermi mi sono accorta di aver lasciato il cuscino da meditazione nella sala grande. Dopo un attimo di disappunto, ho deciso di accettare la situazione e ascoltare il suggetimento dell’Universo: avrei svolto la sessione mattutina nella sala di meditazione. Ho praticato nella sala e mi sono resa conto che la pressione esterna a mantenere la postura e continuare a meditare è stata molto utile. Ha fatto si che la mia mente smettesse di reclamare continuamente una pausa e ne ha favorito la concentrazione. Strano a dirsi, l’opzione che avevo ritenuto più facile, stare nella mia stanza, di fatto sarebbe stata la più difficile. I giorni seguenti ho svolto la sessione di pratica mattutina nella sala di meditazione.

GIORNO 4: L’INSEGNAMENTO DELLA VIPASSANA

I primi tre giorni di ritiro viene insegnata una tecnica chiamata Anapana che si basa sull’osservazione del respiro. Solo al quarto giorno viene introdotta la pratica di Vipassana, che si basa sull’osservazione delle sensazioni. Fino a quel momento avevo avuto l’impressione che il ritiro stesse procedendo bene, e questo cambiamento di pratica mi sembrava l’ultimo ostacolo da superare: se fosse andato bene, confidavo di poter arrivare alla fine del ritiro senza perdere lo stato di calma che avevo sviluppato fino a quel momento. L’insegnamento della Vipassana ha richiesto un paio d’ore, tra una sessione di meditazione e la pausa pomeridiana per il té.

Durante l’insegnamento ho notato il sorgere di una resistenza a me familiare, un rifiuto a proseguire la pratica. Improvvisamente prestare attenzione in modo sistematico a parti del mio corpo mi è diventato insopportabile. Mentre esaminavo la mia spalla, mi sono resa conto con un certo disagio che per concludere il primo giro avrei dovuto continuare così fino ai piedi, e poi ricominciare tutto da capo. Era troppo.

La mia mente è stata invasa dalla paura: cosa succederà ora se non ce la faccio, se perdo la centratura che ho avuto finora e per il resto del ritiro mi trovo a rivivere giorni di angoscia silenziosa? Sentivo le lacrime gonfiare le mie palpebre chiuse.

Decisa a mantenere un atteggiamento positivo, un’altra parte di me è intervenuta per alleggerire il mio sconforto: “Va tutto bene, sei stanca e hai fame e questa situazione ti ha fatto sbottare”. Senza giudicarmi ho preso atto che non ero più nelle condizioni di praticare Vipassana con equanimità, e ho deciso di provare a calmarmi tornando alla pratica di Anapana, l’osservazione del respiro. La semplicità e l’affidabilità delle mie inspirazioni ed espirazioni mi hanno fatto da ancora. Il mio respiro mi ha rassicurata, come il movimento regolare delle onde che si infrangono sulla spiaggia. Sono arrivata al termine di quell’ora, congratulandomi con me stessa per la gentilezza con cui avevo risposto alla situazione. Invece di avvitarmi in una spirale di negatività, mi ero presa cura di me e avevo ritrovato il mio equilibrio.

GIORNO 6: IL DOLORE COME STRUMENTO

Durante una delle sessioni che richiedono massima determinazione, dove gli studenti sono tenuti a mantenere una postura perfettamente immobile per tutta l’ora, mi è venuto in mente che il dolore è utile. Successivamente Goenka è tornato su questo punto durante le istruzioni, ma quella di quel momento è stata una realizzazione personale maturata attraverso l’esperienza. Uno degli obiettivi dello stare seduti perfettamente immobili per un’ora è mantenere una concentrazione stabile e costante. Che l’attenzione si muova è però inevitabile, a prescindere dalla postura. Non avere la possibilità di cambiare posizione aiuta a calmare i pensieri sul se e quando farlo, ma questa non è l’unica ragione.

Un dolore gestibile mi aiuta ad ampliare i limiti della mia equanimità. È molto più facile rimanere centrata quando il mio corpo è a proprio agio e non c’è motivo di agitarsi. Questa presa di coscienza ha totalmente modificato la mia relazione con il dolore, un po’ come era già successo in precedenza quando avevo realizzato che i pensieri intrusivi sono utili. Prima vedevo il dolore come una seccatura, una distrazione dalla pratica. Ora lo considero un’opportunità. Cerco di non giudicarlo, di vederlo semplicemente come una sensazione, non come qualcosa da cui farmi sconvolgere.

Se il dolore diventa insopportabile e compromette la mia pratica, o peggio si trasforma in sofferenza mentale, allora è arrivato il momento di dedicargli attenzione. Durante il primo ritiro non avevo dato ascolto ai segnali che il mio corpo mi inviava. Avevo ignorato il dolore, anche quando era stato così intenso da sequestrare la mia attenzione e diventare causa di tanta autocommiserazione. Questa volta ho fatto del mio meglio per rimanere centrata e accettare l’inevitabile dolore.

Il sesto giorno è stato anche quello in cui ho notato che gli stimoli esterni, in particolare i suoni, provocano reazioni nel mio corpo. Con la pratica della Vipassana e della concentrazione profonda, ho iniziato a sentire un leggero formicolio su ampie zone del corpo. Ho poi notato che i suoni modificavano questo formicolio, come una brezza che sfiora l’erba alta nei campi. Un colpo di tosse nella sala mi ha fatto venire la pelle d’oca nella zona del corpo che stavo osservando, e così quel suono si è trasformato in sensazione.

Questa esperienza ha ribadito ulteriormente la teoria alla base della pratica di Vipassana: ogni interazione tra il mondo esterno e la mente provoca una sensazione nel corpo. Il legame tra emozioni e sensazioni fisiche è qualcosa che tutti abbiamo sperimentato in prima persona ed è un fenomeno ampiamente riconosciuto dalla scienza. Un pensiero ansiogeno può accelerare il battito cardiaco e far sudare le mani. Mente e corpo si adattano continuamente l’una all’altro e formano un unico sistema che reagisce agli stimoli che esso stesso produce. Praticare Vipassana vuol dire non reagire alle sensazioni fisiche e accogliere qualsiasi esperienza mentale ed emotiva. Questa è la magia della Vipassana: ci fornisce un modo per interrompere quel ciclo di reattività e fare spazio a una risposta ponderata invece che a una reazione istintiva e automatica.

GIORNO 10: UN SENTIERO VERSO IL FUTURO

La mattina è stato un misto di concentrazione ed eccitazione sfrenata per via dell’imminente fine del corso e del nobile silenzio. Non vedevo l’ora di poter condividere la mia esperienza con gli altri e riconnettermi con le persone care che avevo lasciato a casa. Una volta terminato l’obbligo del silenzio, con un’amica abbiamo condiviso la nostra esperienza del ritiro. Dopo l’ondata di eccitazione iniziale, è emerso un misto di emozioni. Il chiacchiericcio tutt’attorno ha iniziato a sembrarmi troppo, un po’ come ritrovarmi su un’autostrada dopo settimane passate a camminare in montagna. Improvvisamente il sospirato ritorno alla vita di tutti i giorni mi è apparso difficile e un po’ angosciante. Mi sono resa conto di quanto importante era stata la mia esperienza di Vipassana e ora avevo paura di perderla. Durante il ritiro mi ero sentita in pace e gratificata. Sentivo di aver trovato un sentiero importante, un percorso verso l’autorealizzazione. Ho sentito sorgere dentro di me esitazione e sfiducia. Le persone là fuori avrebbero riconosciuto il valore della mia esperienza? O l’avrebbero snobbata senza cogliere il reale valore che aveva avuto per me?

Inoltre temevo un domani di poter dubitare io stessa del valore della mia esperienza. Mi chiedevo: una volta che questo stato di grazia sarà svanito, mi guarderò indietro come un adulto guarda ai tesori di quando era bambino, con un misto di nostalgia e tenerezza?

Un elemento rassicurante della Vipassana, specialmente rispetto ad altre esperienze spirituali analoghe, è la facilità con cui può essere integrata nella vita quotidiana. È possibile che un ritiro di dieci giorni lasci in uno stato di coscienza tale che semplicemente non può essere mantenuto una volta tornati a casa. Il ritiro è comunque una finestra su un futuro possibile, un futuro che, se solo ci mettiamo impegno e disciplina, è già scritto: continuare a meditare ogni giorno.