[Testo] Episodio 166: Il Posto Giusto per Meditare? Ovunque

In un incontro del mio primo e unico corso di meditazione, l’istruttore ci ha detto che è possibile meditare ovunque ci troviamo. Il praticante non deve preoccuparsi di trovare un posto adatto o il posto giusto per meditare. Possiamo sederci dove siamo. E se stare seduti con la colonna vertebrale diritta è un problema, possiamo anche meditare sdraiati. Per me questa attitudine così permissiva verso la postura e i luoghi dove praticare è stata come una ventata d’aria fresca. E ha fatto crollare anche l’ultima scusa che mi ero inventato per non meditare: il disagio fisico provocato dalla postura non era più un buon motivo per non provarci. Così ho iniziato a meditare. Di solito lo facevo a casa. In soggiorno oppure a volte in camera di mia figlia se il soggiorno era occupato. Ma anche in biblioteca o a casa di amici. Tutto quello che mi serviva era una sedia e un posto tranquillo.

Che poi non doveva nemmeno essere così tranquillo. Quello che dovevo fare era sedermi in posizione comoda, chiudere gli occhi e meditare. Se attorno c’era rumore, ne diventavo consapevole: lo riconoscevo, notavo la sua presenza, ma senza farmi coinvolgere. E prestavo attenzione a cosa succedeva se la mia mente reagiva al rumore. La svolta è stata riconoscere che meditare significa essere consapevole. Non vuol dire né evitare né farsi sedurre da quello che accade. La pratica mi chiedeva di essere presente nel qui e ora, non assente nel qui e ora. Pienamente consapevole.

Con queste premesse, mi è sembrato chiaro fin da subito che un luogo dove meditare era la metropolitana di New York. In metropolitana sono abituato a leggere. Forse da quando vivo in città è lo spazio di lettura più importante della mia giornata. Ma non ho mai pensato alla metropolitana come a un luogo tranquillo, anche se per un pendolare come me in realtà lo è. Di solito trovavo un posto a sedere, aprivo un libro e mi ci perdevo dentro. Era come sognare a occhi aperti. Un sogno che più di una volta mi ha fatto perdere la mia fermata. E allora perché non provare a meditare?

Poco tempo dopo mi si è presentata l’occasione: un giorno, mentre ero in biblioteca, ho dovuto saltare la mia meditazione pomeridiana tra gli scaffali. A quel punto non avevo più molto tempo; dovevo però prendere la metropolitana per tornare a Brooklyn a prendere mia figlia al doposcuola. Se volevo meditare avrei dovuto farlo durante quel tragitto, prima di tornare ad essere genitore a tempo pieno. E così ho preso la linea Q in direzione centro, ho cercato un posto, l’ho trovato, mi sono seduto, ho messo lo zainetto tra le gambe, ho raddrizzato la schiena e ho chiuso gli occhi.

Mentre la metropolitana mi portava da Manhattan a Brooklyn passando da Chinatown, ho meditato per venti minuti. Ho sentito i suoni e gli odori intorno a me, ho notato le sensazioni nel corpo. Ho sentito i rumori striduli del treno sui binari, gli annunci del macchinista, il suono dei cellulari, i discorsi sussurrati, lo scrocchiare delle patatine tra i denti. Ho sentito il mio corpo ondeggiare, la mia testa penzolare, ho percepito intorno a me i corpi in piedi o seduti dei passeggeri alla ricerca di un equilibrio precario.

Ero in una carrozza della metropolitana; ero presente, non assente. Ero consapevole. Sono un essere umano e la vista è il mio senso più importante. Se chiudo gli occhi, divento consapevole di una realtà diversa. Quel giorno, nonostante da fuori potessi sembrare distante, ero molto più consapevole di quella carrozza di quanto fossi mai stato con gli occhi chiusi. Non ero andato da nessuna parte, ma ero comunque in un luogo diverso. In metropolitana, letteralmente e metaforicamente.