[Testo] Episodio 045: Come Funziona la Mindfulness

Gary Weber stima di aver praticato meditazione e yoga per oltre 30 mila ore.

Tutto ha inizio nel 1972. Dottorando ventinovenne presso l’Università della Pennsilvanya, Weber si rende conto di fare fatica a governare il suo cervello. Come succede a molti di noi, è frustrato dall’idea di non poter gestire il flusso ininterrotto di pensieri che affollano la sua mente. Ansie sul passato, sul futuro e sul presente vanno e vengono senza che lui possa fare nulla. Preso atto che non ne può più, passa all’azione.

Per i tre decenni successivi, Weber legge libri, frequenta maestri e pratica due ore al giorno di Mindfulness. Col tempo, la sua mente affollata inizia a calmarsi.

Oggi afferma che la sua mente è completamente silenziosa. Sostiene anche di avere il pieno controllo dei suoi pensieri. Tale affermazione ha generato un notevole scetticismo, ma negli ultimi dieci anni Weber ha provato a validarla basandosi sulla letteratura scientifica riguardante il funzionamento del cervello umano.

La Mindfulness, sotto forma di meditazione e yoga, è diventata oggi un argomento di moda. Si fa un gran parlare degli effetti positivi della pratica ed esistono molte guide che spiegano come iniziare. Poche, però, cercano di arrivare ad una comprensione più profonda. Weber ed altri scienziati hanno passato anni a cercare di capirne il funzionamento. Le conclusioni a cui sono arrivati sono ancora acerbe, e dovranno sostenere l’esame del tempo, ma molte di esse aiutano a dipingere un quadro più chiaro di come funziona realmente il cervello. Se la studiamo in profondità, possiamo arrivare a comprendere come la Mindfulness impatta sulla qualità della nostra vita e perché può essere una pratica importante.

Prima di iniziare a capire come la Mindfulness agisce sulla mente e cosa può fare per migliorare la nostra vita, vale la pena parlare di cos’è che ti rende te. Argomento alquanto impegnativo e sul quale i filosofi hanno argomentato per secoli. Alcune tradizioni, ad esempio il buddismo che tanto ha fatto per diffondere la pratica della Mindfulness, affermano addirittura che non esiste un Sé.

Per ragioni pratiche, chiameremo Sé ciò che normalmente associamo alla nostra identità. Nella vita di tutti i giorni, cos’è che consideri l’essenza del tuo essere?

Per la maggior parte delle persone la risposta è un senso di continuità psicologica. I loro corpi possono essere invecchiati, oggi forse non sono più le persone che erano dieci anni fa, e anche i loro schemi di pensiero possono essere cambiati, ma il flusso costante di ricordi ed esperienze persiste. È come una lunga sequenza di eventi e situazioni. È tale sequenza che la maggior parte di noi di solito associa all’idea di sé e non necessariamente i diversi tratti o le caratteristiche di un periodo specifico della nostra vita. Quel bambino di due anni con turbe intestinali magari non ti assomiglia ed è probabile che tu oggi sperimenti la realtà in modo diverso da allora, ma nonostante questo, in senso lato, tu e quel bambino siete la stessa persona.

Questa teoria è apparsa per la prima volta nel lavoro del filosofo inglese John Locke e nel corso degli anni è stata rivista e aggiornata più volte per dare risposta a svariate obiezioni. L’idea di base, comunque, è rimasta la stessa, e si integra bene con il nostro approccio alla Mindfulness.

La tua identità personale non è qualcosa di statico. È una serie di esperienze in continuo cambiamento. Se accettiamo questa definizione, possiamo aggiungere che tale continuità è formata da due macro-categorie di esperienze. La prima comprende l’insieme delle esperienze quotidiane della realtà così come le riceviamo dall’ambiente circostante. La seconda è il risultato del nostro monologo interiore.

Sebbene gran parte della nostra continuità psicologica sia modellata dall’ambiente esterno e dagli stimoli che ne riceviamo, essa è fortemente condizionata anche dal monologo interiore. Questa voce dentro di noi ha sede in una struttura del cervello chiamata Default Mode Network, una rete di aree cerebrali fortemente interconnesse, ma allo stesso tempo scollegate dal resto dell’encefalo. Tale struttura è attiva anche quando interagiamo poco con l’ambiente esterno, ed è responsabile della tendenza della mente a divagare, ad andare appresso in modo automatico ad ansie e preoccupazioni, e a cristallizzarsi su piccoli eventi quotidiani altrimenti irrilevanti.

Ciò che Weber e altri scienziati sostengono è che la Mindfulness può calmare la Default Mode Network e darci una sensazione di distacco dai pensieri.

Di fatto le risonanze cerebrali effettuate in diversi studi, ad alcuni dei quali ha partecipato lo stesso Weber, mostrano che la Default Mode Network è meno attiva nei meditatori di lungo corso rispetto ai non meditatori. Inoltre, la tesi di Weber si spinge fino a suggerire che buona parte della sofferenza mentale che sperimentiamo ha origine proprio in quest’area del cervello. Se ciò è vero, e ci sono sempre più evidenze a supporto, allora non è difficile capire perché la pratica di Mindfulness può modificare il modo in cui percepiamo la realtà, e come potrebbe addirittura aiutarci a superare molti dei nostri conflitti interiori.

La Default Mode Network ci condiziona. Come sarebbe se fosse il contrario?

Gary Weber rivendica un controllo della propria mente che si riscontra molto di rado e da questo deriva lo scetticismo che molti nutrono nei confronti delle sue affermazioni. La promessa della Mindfulness non è quella di renderci capaci di gestire tutti i pensieri che sorgono nella nostra mente. Quello che promette invece è che col tempo saremo in grado di osservarli con attenzione. Potremo fermarci e osservare i nostri pensieri invece che esserne posseduti.

Per esempio, invece di reagire immediatamente e in modo automatico all’impulso di mangiare un biscotto mentre sei a dieta, puoi vedere che c’è un impulso e magari anche lasciarlo passare. La stessa idea si applica ad ansie e preoccupazioni. Invece di perderti in un torrente di pensieri su come ti sei comportato in passato o su eventuali problemi futuri, se impari ad essere presente e consapevole, puoi fare in modo che questi pensieri non si fermino nella tua mente più di quanto è necessario.

Questo sguardo distaccato ha un valore enorme, ma richiede anche molto impegno. Un metodo semplice e pratico che chiunque può utilizzare si chiama con un acronimo: R.A.I.N. Si tratta di un metodo utilizzato nell’ambito della terapia cognitivo-comportamentale che permette al praticante di mantenere una prospettiva distaccata quando si trova ad affrontare situazioni difficili e impegnative.

La R sta per “riconosci ciò che sta accadendo”. La A sta per “accettalo così com’è”. La I sta per “investiga da dove proviene”. Infine la N sta semplicemente per “non identificarti”. L’idea è fondamentalmente quella di fermarsi, osservare ciò che c’è, riconoscerlo e creare spazio.

Tutto ciò avviene spontaneamente in chi pratica Mindfulness, ma se applichi questo metodo ogni volta che pensieri e impulsi intrusivi si infiltrano nella tua mente, di fatto pratichi una forma di Mindfulness personalizzata che ti fa vivere meglio la tua vita. Uno sguardo distaccato ti dà un senso di controllo che semplifica di molto le sfide da affrontare quotidianamente.

In molte culture orientali, i benefici dello yoga e della meditazione come strumenti per vivere consapevolmente sono noti da secoli. Solo di recente, però, tali discipline si sono diffuse in Occidente.

Mentre per quanto riguarda la Mindfulness è ancora difficile distinguere il vero dal falso, il lavoro che Gary Weber e i suoi colleghi stanno portando avanti per validarla scientificamente sta poco a poco gettando luce su questa pratica.

La maggior parte delle persone ha un’idea di massima di ciò che la Mindfulness può fare per loro e solo pochi conoscono i dettagli dell’intero quadro. Peraltro, spesso è proprio nei dettagli che possiamo trovare i semi del cambiamento.

La Mindfulness non è una cura istantanea per i mali della vita, ma può aiutarci a gestirli meglio.