Mi capita di vedere persone che scoprono la Mindfulness per la prima volta e iniziano a praticare con grande entusiasmo. In alcuni casi tale entusiasmo è motivato dall’immaginare quali straordinari e immediati benefici si potranno ricevere dalla meditazione. Tra questi, quelli che sento con maggiore frequenza sono eliminare l’ansia e lo stress, risolvere problemi personali o lasciarsi alle spalle un periodo di depressione.
Queste fantasie non possono essere alimentate all’infinito e quando la difficoltà a realizzarle diventa evidente, il neo-praticante cade in preda allo sconforto e alla delusione. E talvolta abbandona la pratica considerandola inefficace o inadatta. Alla base di tale scelta può esserci la legittima fatica di affrontare le sofferenze della vita.
L’infatuazione per la pratica è una forma di samudaya, un’energia che si manifesta come reazione di evitamento nei confronti della sofferenza. Il disappunto, invece, fa parte delle reazioni avverse della pratica, uno stato non propizio indotto dall’aver intrapreso un sentiero meditativo con motivazioni che possono essere fuorvianti.
La pratica richiede pazienza, fiducia, impegno e disciplina. L’unico modo per coltivarla è innamorarsene.
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